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America, aborto, donne al fronte e leva obbligatoria

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– In questi giorni si è celebrato un anniversario importante per l’America. Sono passati 40 anni dalla storica sentenza della Corte Suprema “Roe contro Wade” che nei fatti ha legalizzato l’aborto in tutto il paese.

Jane Roe era la pseudonimo legale di Norma L. McCorway, una donna che nel 1969, accortasi di essere incinta, cercò di ottenere la possibilità di abortire dapprima in modo “fraudolento” – cioè dichiarando falsamente di essere stata stuprata – e poi, invece, intraprendendo una battaglia legale a viso aperto per vedere riconosciuto un diritto soggettivo all’interruzione volontaria della gravidanza. Henry Wade era il rappresentante dello Stato del Texas, la cui legge era messa in discussione come incostituzionale.

Jane Roe non abortì mai e, per ironia della sorte, successivamente è diventata una convinta militante anti-abortista. Tuttavia “Roe contro Wade” rappresentò una pietra miliare nella storia del femminismo e continua a spaccare l’America sul piano politico e morale, tra “pro-choicers” e “pro-lifers”. Dopo una primo verdetto di una corte distrettuale sul quale sia la Roe che Wade avevano fatto appello, il caso approdò alla Corte Suprema nel 1970 e fu deciso in favore di Roe il 22 gennaio del 1973, con un voto a maggioranza per 7 a 2.

Secondo la Corte “il diritto alla privacy, sia che sia visto come fondato sul concetto di libertà personale e di libertà da restrizioni statali affermato dal Quattordicesimo Emendamento, sia che sia visto come fondato sui diritti riservati alle persone affermati dal Nono Emendamento, è un diritto sufficientemente ampio da abbracciare la decisione della donna di terminare o meno la propria gravidanza”.

Dunque, “Roe contro Wade” è fondamentalmente l’affermazione del diritto di una persona alla proprietà del proprio corpo. Allora, legittimamente, la mente può andare a un’altra sentenza chiave della Corte Suprema sui gender issues, che invece ha purtroppo determinato un esito diverso. Questa sentenza è quella sul caso “Rostker contro Goldberg”.

Il caso Rostker contro Goldberg nacque in seguito alla decisione del presidente Jimmy Carter di reintrodurre la registrazione obbligatoria dei maschi nelle liste militari per il potenziale servizio di leva, come “risposta” alla situazione di tensione internazionale creatasi con l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Tale registrazione era stata precedentemente abolita da Gerald Ford nel 1975.

Un gruppo di uomini, tra cui Fredric Hayward, fondatore di Men’s Rights, fece ricorso contro la legge varata dal Congresso per discriminazione sessuale. La causa oppose l’avvocato Robert Goldberg, che rappresentava i ricorrenti, e il direttore dell’ufficio federale di leva Bernard Rostker.

Una corte federale esaminò il ricorso e dette ragione a Goldberg, vietando al governo federale di richiedere la registrazione degli uomini sulla base della legge che era stata varata. Rostker, tuttavia, fece appello alla Corte Suprema, che il 25 giugno del 1981 decretò, con un voto di 6 a 3, che la legge che imponeva la registrazione degli uomini non era incostituzionale.

Insomma, per gli uomini “Rostker contro Goldberg” è un “Roe contro Wade” al contrario. “Roe contro Wade” afferma che le donne sono proprietarie del proprio corpo. “Rostker contro Goldberg” afferma che i maschi invece non lo sono.

Come in Italia, anche in America la leva è “in sonno”, ma tutt’oggi gli uomini che rifiutano di registrarsi nelle liste militari possono essere multati fino a 250mila dollari, condannati fino a cinque anni di carcere ed essere esclusi da determinate opportunità offerte dal governo federale o statale, come posti di lavoro pubblici, formazione professionale, welfare e – per gli immigrati – l’accesso alla cittadinanza.

La Corte suprema motivò la sentenza sulla leva sulla base del fatto che essa serve a preparare truppe di combattimento. Siccome la legge non consente l’impiego delle donne in combattimento, allora è motivato – e non costituisce discriminazione – il fatto che la legge sulla registrazione si applichi solamente agli uomini.

In pratica, la Corte Suprema ha semplicemente spostato la questione più a monte: non è necessario far registrare le donne perché le donne non sono ammesse in battaglia. Ma è costituzionale, allora, che le donne non siano ammesse in battaglia? In realtà, le restrizioni sull’impiego delle donne in ruoli operativi sono state nel tempo rilassate, fino alla svolta definitiva di questi giorni, quando il segretario americano alla Difesa Leon Panetta ha comunicato la decisione di ammettere le donne anche ai combattimenti di prima linea.

Il nuovo orientamento dell’amministrazione USA è parzialmente la conseguenza della pressione esercitata da gruppi femminili per rimuovere i residui ostacoli legali alla presenza a pieno titolo delle donne nella forze armate. Quattro donne nel novembre scorso avevano avviato una causa contro Panetta, sostenendo che l’esclusione dai ruoli di prima linea svantaggia le donne e “manda il chiaro messaggio che le donne non sono in grado di servire il loro paese alla stregua degli uomini”.

L’apertura di Panetta alla presenza delle donne in tutti i ruoli militari operativi è dunque un passo avanti nel riconoscimento dell’uguaglianza legale tra i due sessi. Tuttavia, ha anche un corollario che non può essere ignorato: se la sentenza “Rostker contro Goldberg” poteva avere una qualche base in passato, oggi certamente non può averne più alcuna.

La National Coalition For Men (NCFM), dal 1977 la maggiore organizzazione maschile, ha già preso la palla al balzo, rivendicando una revisione della legge sulla registrazione militare, in quanto oggi uomini e donne oggi hanno pari opportunità di carriera nelle forze armate, ma non pari libertà di scelta e pari responsabilità.

L’ideale, naturalmente, è che la parificazione tra i due sessi avvenga nel senso dell’abolizione totale dell’obbligo di registrazione militare. Se Ford ebbe il coraggio di sopprimerla già nel pieno della guerra fredda, non si vede perché essa debba essere considerata necessaria in una fase storica come quella attuale. Liberiamo i giovani dalla spada di Damocle della leva e, a distanza di quarant’anni da “Roe contro Wade”, proviamo a stabilire il principio che l’autodeterminazione fisica è un diritto di tutti, uomini e donne.


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